Indicazione dello stabilimento in etichetta: vigenza ed applicabilità del decreto legislativo 145/2017.
Quesito: Ho riscontrato che il decreto legislativo 145/2017 disponente l’obbligo di indicazione in etichetta dello stabilimento di produzione o, se diverso, di confezionamento, risulta ancora vigente. Credevo che tale norma fosse stata rigettata in sede europea e che, pertanto, fosse obbligatorio indicare in etichetta solo «il nome o la ragione sociale e l’indirizzo dell’operatore del settore alimentare di cui all’articolo 8, paragrafo 1», come recita il regolamento (UE) 1169/2011. Su un prodotto commercializzato, realizzato da un terzo e poi venduto con marchio di altri, è dunque giusto porre come unico indirizzo quello dell’operatore responsabile del marchio?
Risponde l'avvocato Stefano Senatore.
In materia di etichettatura dei prodotti alimentari preimballati, l’indicazione obbligatoria della sede dello stabilimento di produzione o di confezionamento non rappresenta una novità per l’ordinamento italiano, essendo già contemplata, in passato, dal decreto legislativo n. 109/1992 (nonché dalla disciplina precedente a tale normativa).
Tale previsione del Legislatore nazionale risultava, peraltro, espressamente autorizzata dalla normativa comunitaria allora vigente, quale la direttiva 79/112/CEE che, all’articolo 3, consentiva – per l’appunto – agli Stati membri di “mantenere le disposizioni nazionali che impongono l'indicazione dello stabilimento di fabbricazione o di condizionamento per la loro produzione nazionale”.
Il quadro giuridico europeo, tuttavia, mutava con il sopravvenuto regolamento (UE) 1169/2011, nell’ambito del quale, pur essendo lasciati aperti alcuni spazi di intervento per gli Stati membri, non veniva riproposta una specifica norma di “copertura” per le misure nazionali sull’indicazione della sede dello stabilimento.
Di ciò prendeva atto anche il Ministero dello sviluppo economico (attuale Ministero delle imprese e del made in Italy) che, attraverso una circolare del 14 luglio 2014, riferiva di non considerare più applicabile l’obbligo informativo di cui sopra, stante la sua incompatibilità con il nuovo regolamento unionale (ferma restando la possibilità di fornire la relativa indicazione a titolo volontario).
La norma italiana che imponeva l’indicazione della sede dello stabilimento rimaneva, ad ogni modo, formalmente in vigore sino al 9 maggio 2018, quando l’intero decreto legislativo n. 109/1992 era abrogato e sostituito dal decreto legislativo 15 dicembre 2017, n. 231.
Il requisito di etichettatura in esame, non più presente nel decreto legislativo n. 231/2017, veniva comunque mantenuto nell’ordinamento attraverso un separato atto giuridico, ossia, il decreto legislativo 15 settembre 2017, n. 145, entrato in vigore il 5 aprile 2018 (dunque, senza soluzione di continuità con il regime previgente, abrogato solo nel successivo mese di maggio).
Il decreto n. 145/2017, in particolare, imponeva (ed impone, essendo tuttora vigente) l’indicazione in etichetta della “sede dello stabilimento di produzione di produzione o, se diverso, di confezionamento”. La formulazione è, quindi, analoga a quella del 1992, da cui però si differenzia in quanto non permette più all’operatore la scelta della sede da indicare (“stabilimento di produzione o di confezionamento”), prevedendo invece che, ogni qual volta il luogo di produzione non corrisponda a quello di confezionamento, sia solo quest’ultimo a dover essere riportato (“stabilimento di produzione o, se diverso, di confezionamento”).
Tanto premesso, occorre chiarire che, purtroppo, sussistono ragionevoli dubbi sull’effettiva applicabilità del decreto legislativo n. 145/2017.
Infatti, prescindendo in questa sede da ogni considerazione in merito alla compatibilità delle norme nazionali in esame con la disciplina armonizzata di cui al regolamento (UE) 1169/2011 – questione complessa, che meriterebbe di essere approfondita in relazione agli articoli 38 e 39 del regolamento (UE) 1169/2011 [1] ed all’articolo 114 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE) [2] – le criticità più evidenti cui si espone l’iniziativa italiana derivano dalla gestione, anomala e travagliata, delle procedure di notifica alla Commissione europea.
La disciplina contenuta nel decreto legislativo, infatti, è stata inizialmente ricondotta, dallo stesso Governo italiano, al regime delle “regole tecniche” di cui alla direttiva 98/34/CE, poi sostituita dalla direttiva (UE) 2015/1535, entrambe recepite in Italia con legge 21 giugno 1986, n. 317 [3]. Pertanto, conformemente a quanto previsto dalle richiamate disposizioni, il 30 marzo 2017 la bozza delle previsioni nazionali sulla sede dello stabilimento è stata notificata, alla Commissione europea, attraverso il sistema TRIS (Technical Regulation Information System). A fronte di tale comunicazione, la Commissione ha però espresso un parere circostanziato in senso negativo, con conseguente obbligo di rinvio dell’adozione del testo definitivo sino al 2 ottobre 2017.
A questo punto, inaspettatamente, la notifica TRIS è stata ritirata dal Governo. Stando a quanto riferito dall’allora Commissario europeo per la salute e la sicurezza alimentare, Vytenis Andriukaitis, con nota del 19 gennaio 2018, l’Italia ha infatti optato per avviare una seconda, autonoma procedura di notifica alla Commissione, presentata il 3 agosto 2017, ai sensi, stavolta, dell’articolo 45 del regolamento (UE) 1169/2011, concernente le nuove normative introdotte dagli Stati membri sulle informazioni ai consumatori [4]. Tuttavia, anche quest’iniziativa risulta essere stata, in seguito, ritirata dalle Autorità nazionali.
Un terzo ed ultimo iter di notifica è stato, poi, instaurato in attuazione dell’articolo 114, paragrafo 4 del TFUE, il che ha determinato un significativo cambio di prospettiva, posto che tale norma, diversamente dalle precedenti, è volta non a permettere l’adozione di nuove regole, bensì a mantenere in vigore disposizioni nazionali già esistenti prima di un intervento normativo dell’Unione europea. Dal ricorso a tale procedura si deduce quindi come il Governo, in ultima istanza, abbia inteso presentare il decreto legislativo n. 145/2017 come la prosecuzione dell’analoga disciplina contenuta nel decreto legislativo n. 109/1992.
La positiva conclusione del procedimento di cui all’art. 114, paragrafo 4 avrebbe richiesto l’adozione di un’autorizzazione da parte Commissione europea, la quale, tuttavia, è stata espressamente negata con nota dd. 30 gennaio 2018, che ha dichiarato la notifica “irricevibile”.
Le vicende innanzi richiamate, in definitiva, rendono quanto meno opinabile l’operatività del decreto legislativo n. 145/2017, preso atto che:
- qualora la citata disciplina fosse da ritenere soggetta al regime dell’articolo 114, paragrafo 4, la stessa non avrebbe conseguito la prescritta autorizzazione della Commissione, che secondo la Corte di giustizia dell’Unione europea costituisce il presupposto necessario perché lo Stato membro possa applicare le disposizioni nazionali notificate (v. Tribunale UE, 5 ottobre 2005, cause riunite T‑366/03 e T‑235/04);
- qualora l’iniziativa italiana dovesse, invece, ricondursi alla procedura di notificazione di cui alla direttiva (UE) 2015/1535 oppure a quella, alternativa, di cui all’articolo 45 del regolamento (UE) 1169/2011, la possibilità di applicare il decreto legislativo n. 145/2017 potrebbe doversi considerare preclusa in ragione dell’avvenuto ritiro di entrambe le notifiche, ove ciò fosse equiparabile al mancato esperimento dell’iter notificatorio.
Nel senso della non applicabilità delle disposizioni italiane, del resto, si è già recentemente espresso il Tribunale di Roma, con ordinanza del 3 gennaio 2019, resa all’esito di un procedimento cautelare d’urgenza promosso ai sensi dell’art. 700 del codice di procedura civile (e quindi, per inciso, priva di efficacia di giudicato). La pronuncia romana, difatti, nel respingere le richieste di rimozione di alcuni articoli giornalistici, critici nei confronti della gestione governativa delle procedure di notifica [5], ha riconosciuto la “sostanziale verità” delle informazioni ivi riportate, “considerato il difetto dell’iter procedurale del d.lgs. 145/2017, per la mancata notifica, con le conseguenze indicate dal punto divista operativo, che ne minano la obbligatorietà”.
In conclusione, quanto sopra illustrato determina, quanto meno, uno stato di precarietà della disciplina in esame, che probabilmente meriterebbe di essere chiarito nelle competenti sedi giudiziali, in particolare, all’esito dell’impugnazione di un’eventuale sanzione amministrativa comminata per la sua violazione.
Nel frattempo, considerato che il decreto legislativo n. 145/2017 è, formalmente, ancora in vigore, un approccio cautelativo, volto a prevenire potenziali contestazioni, renderebbe comunque consigliabile adeguarsi alle disposizioni ivi contenute. In quest’ottica, in relazione alla fattispecie rappresentata dal lettore, in cui un alimento venga commercializzato con il nome e marchio di un determinato operatore ma sia stato prodotto e confezionato da un diverso soggetto, nella sua etichettatura dovrebbero essere riportati:
- sia il nome e l’indirizzo dell’operatore con il cui nome il prodotto è commercializzato, come prescritto dall’articolo 9, paragrafo 1, lettera h) del regolamento (UE) 1169/2011;
- sia il diverso indirizzo dello stabilimento di produzione e confezionamento, in applicazione del decreto legislativo n. 145/2017.
[Articolo pubblicato sulla rivista Alimenti&Bevande, n. 3/2024, Filo diretto con l'esperto]
NOTE:
[1] L’articolo 38 del regolamento (UE) 1169/2011, in particolare, dispone che “1. Quanto alle materie espressamente armonizzate dal presente regolamento, gli Stati membri non possono adottare né mantenere disposizioni nazionali salvo se il diritto dell’Unione lo autorizza. (...) 2. Fatto salvo l’articolo 39, gli Stati membri possono adottare disposizioni nazionali concernenti materie non specificamente armonizzate dal presente regolamento purché non vietino, ostacolino o limitino la libera circolazione delle merci conformi al presente regolamento”.
Ai sensi dell’articolo 39, inoltre, “1. Oltre alle indicazioni obbligatorie di cui all’articolo 9, paragrafo 1, e all’articolo 10, gli Stati membri possono adottare, secondo la procedura di cui all’articolo 45, disposizioni che richiedono ulteriori indicazioni obbligatorie per tipi o categorie specifici di alimenti per almeno uno dei seguenti motivi (...) 2. In base al paragrafo 1, gli Stati membri possono introdurre disposizioni concernenti l’indicazione obbligatoria del
paese d’origine o del luogo di provenienza degli alimenti solo ove esista un nesso comprovato tra talune qualità dell’alimento e la sua origine o provenienza (...)”.
[2] Ci si riferisce, nello specifico, al paragrafo 4 dell’articolo 114 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, laddove prevede che “Allorché, dopo l'adozione di una misura di armonizzazione [dell’Unione europea, NdR], uno Stato membro ritenga necessario mantenere disposizioni nazionali giustificate da esigenze importanti di cui all'articolo 36 o relative alla protezione dell'ambiente o dell'ambiente di lavoro, esso notifica tali disposizioni alla Commissione precisando i motivi del mantenimento delle stesse”. In base al successivo paragrafo 6, “La Commissione, entro sei mesi dalle notifiche di cui ai paragrafi 4 e 5, approva o respinge le disposizioni nazionali in questione dopo aver verificato se esse costituiscano o no uno strumento di discriminazione arbitraria o una restrizione dissimulata nel commercio tra gli Stati membri e se rappresentino o no un ostacolo al funzionamento del mercato interno”.
[3] Per “regola tecnica”, in base alle normative europee e nazionali citate, si intende “una specificazione tecnica o altro requisito o una regola relativa ai servizi, comprese le disposizioni amministrative che ad esse si applicano, la cui osservanza è obbligatoria, de iure o de facto, per la commercializzazione, la prestazione di servizi, lo stabilimento di un fornitore di servizi o l'utilizzo degli stessi in uno Stato membro dell'Unione europea o in una parte importante di esso”.
[4] L’articolo 45 del regolamento (UE) 1169/2011 stabilisce, in particolare, che “gli Stati membri che ritengono necessario adottare nuova normativa in materia di informazioni sugli alimenti notificano previa mente alla Commissione e agli altri Stati membri le disposizioni previste, precisando i motivi che le giustificano”.
[5] Ci si riferisce, in particolare, all'articolo a firma dell'avvocato Dario Dongo, Sede stabilimento, le balle spaziali del governo Gentiloni, pubblicato su GIFT il 7 luglio 2018 (il cui testo è tuttora disponibile qui).